In generale, detto istituto – originariamente introdotto con il D.Lgs. n. 28/2015, in attuazione della legge delega n. 67/2014, art. 1, comma 1, lett. m) – assolve la funzione di filtro e di alleggerimento del sistema giudiziario e, al contempo, risponde ad una esigenza di proporzionalità della pena, che deve essere intesa come extrema ratio. In sostanza, dunque, è permesso al giudice di escludere la punibilità per fatti di minima offensività, evitando che il procedimento penale venga avviato o proseguito per reati di lieve entità e, soprattutto, che i diritti dell’individuo vengano eccessivamente pregiudicati in presenza di comportamenti di scarso rilievo sociale.
L’opera di riforma realizzata dal D.lgs. n. 150/2022 (cd. Riforma Cartabia) ha introdotto le seguenti modifiche:
- Modifica dei limiti edittali. Mentre in passato la causa di non punibilità in parola poteva essere invocata solo per i reati puniti con pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, a seguito delle novità introdotte dal decreto legislativo succitato, l’ambito di applicazione dell’istituto è stato esteso anche ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore, nel minimo, a due anni, indipendentemente dall’entità del massimo edittale.
- Esclusione di particolari tipologie di reati dall’ambito di applicazione della causa di esclusione della punibilità ex art. 131-bis cod. pen. In particolare, nel perimetro del detto istituto non rientrano i reati riconducibili alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nonché ulteriori reati di particolare gravità.
- Particolare tenuità dell’offesa. Ulteriore condizione necessaria ai fini della esclusione della punibilità è costituita dalla particolare tenuità dell’offesa, da apprezzare tenendo conto delle “modalità della condotta” realizzata dal soggetto agente e della “esiguità del danno” cagionato con la condotta.
- La valorizzazione della condotta successiva. Ai fini della valutazione della tenuità del fatto, può oggi essere tenuta in considerazione la condotta susseguente al reato (es., restituzione del profitto, risarcimento del danno, condotte riparatorie, accesso a programmi di giustizia riparativa, ecc.).
Così brevemente sintetizzate le novità introdotte dalla Riforma Cartabia, appare interessante in questa sede approfondire tale ultimo aspetto afferente alla condotta dell’imputato successiva alla commissione del reato.
Sul punto, la Suprema Corte1 ha chiarito che la condotta susseguente al reato, affinché assuma rilevanza ai fini del riconoscimento della particolare tenuità del fatto, deve essere espressione di una propria personale resipiscenza, tanto da essere intesa quale forma di distacco emotivo rispetto alla violazione della legge penale posta in essere, non potendo limitarsi ad essere un comportamento meramente anticipatorio di un effetto necessitato dalla legge. Tale precisazione è stata operata con riferimento alle condotte di bonifica dello stato dei luoghi effettuata a mezzo ditta specializzata dopo la realizzazione e gestione di una discarica abusiva: una tale condotta non può giustificare, di per sé sola, l'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen., potendo essere valorizzata solo come ulteriore criterio, accanto tutti quelli di cui all'art. 133, comma 1, cod. pen., nell'ambito del giudizio complessivo sull'entità dell'offesa.
Evidentemente, la prova circa la sussistenza e la rilevanza di tali condotte riparatorie è onere della difesa: l’imputato è, infatti, tenuto ad allegare specifici elementi da cui desumere la sussistenza del presupposto de quo2.
Attenzione, però, la condotta dell’imputato successiva al reato, nondimeno, non può, per sé sola, rendere di particolare tenuità un’offesa che tale non era al momento del fatto, potendo essere valorizzata solo nell’ambito del giudizio complessivo sull’entità dell’offesa recata, da effettuarsi alla stregua dei parametri di cui all’art. 133, comma 1, cod. pen.
Note
- Cass. pen., Sez. III, 14 novembre 2024, n. 46231
- Cass. pen., Sez. III, 16 febbraio 2024, n. 13657, che richiama Cass. pen. Sez. 2, 10 aprile 2015, n. 32989